“Aprile è il più crudele dei mesi: genera
lillà della morta terra mescola
ricordo e desiderio, stimola
le sopite radici con la pioggia primaverile.
L’inverno ci tenne caldi coprendo
la terra di neve obliosa, nutrendo
grama vita con tuberi selvaggi…”
L’elegia aspra e triste, dilatata in ampi ma contenuti registri tonali, di T.S. Eliot è forse l’equivalenza verbale più propria e pertinente che si possa proporre delle opere di Giovanni Mancini.
Nelle sue opere un nuovo antirazionalismo, pur nella utilizzazione estremamente razionale di mezzi tecnici, trova la sua espressione in configurazioni che si pongono come complessi segni per nuovi motivi.
Nella nostra epoca “illuminata” egli chiama concetti come magia delle cose, TOTEM, feticcio, sino a qualche tempo fa usati acriticamente a svolgere un ruolo nuovo e determinante: “…La magia è l’ultimo riparo della autoaffermazione individuale, forse dell’individuo in generale”.
Alla nostra realtà corrisponde, secondo modi che lasciano sorpresi anche noi, un vocabolario preistorico. I segni della nuova magia non sono tuttavia regressioni, né si orientano in ideali radicatisi in epoche anteriori alla tecnica.
Come quella dell’uomo anche la rappresentazione degli animali è uno dei soggetti preferiti della scultura di Mancini. L’immagine dell’ uccello in volo, che ha costituito uno dei temi centrali della recente scultura in generale, esprime in modo inequivocabile la segreta aspirazione del tempo. Funzione e ritmo corporeo appaiono plasticamente scanditi, si che l’organismo naturalistico uccello dilegua del tutto di fronte all’emergere del principio energetico.
Non diversa dalla scultura è la pittura di Mancini.
La sua fantasia sembra avere intuito il punto che unisce e divide la forma e l’informe; l’immagine e la materia; l’arte e la natura. Protende poche campiture solenni ed essenziali, le fa dialogare con battute scarne e pregnanti, incorpora la vibrazione della materia e il suo acuto contrasto, magma lavico di questa nostra terra; il risultato finale può apparire inquietante, lo è nella misura in cui sempre, analizzando una cosa ne perdiamo i contorni dettati dal senso comune e la conosciamo nello stesso tempo troppo e troppo poco. Mostra così una straordinaria incredibile verginità d’occhio: una verginità non formale ma una verginità sostanziale, nel primo rapporto poetico e conoscitivo con la realtà.
G. Zoschg