….Non credo di mancare il bersaglio definendo quest’opera di Mancini come un menhir postmoderno. Essa infatti si erge solitaria, gigantesca e incombente. Ed è perfino vagamente (ma del tutto casualmente) antropomorfa. L’opera – sarà oramai chiaro – è appunto lo sviluppo di una scheggia di obice, una gigantografia assolutamente fuori la norma di un oggetto che se fosse ricostruito in scala nella sua interezza occuperebbe quantomeno il volume di una montagna. Personalmente vedo in questa scultura uno sviluppo ulteriore del rovinismo. Avrei voluto principiare questo scritto partendo dalla perdita della centralità dello spirito descritta da Hans Sedlmayer, per poi inerpicarmi tra le variegate e impervie regioni dell’estetica del frammento e infine dell’estetica della sparizione. Argomenti questi ultimi di gran moda. Teorie che almanaccate nel solito gospel politicamente e teoreticamente corretto ti assicurano l’applauso di pragmatica. Ho voluto invece lasciare il campo all’impulso della memoria e del sentimento, e ciò perché la verità di quest’opera d’arte creata da Mancini consiste interamente nella sua stessa presenza. Essa ricorda quella lacerazione primigenia che è la stessa vita umana. Essa è il corpo contundente che originò la ferita dello spirito.
RICCARDO NOTTE
CATALOGO L’ORIZZONTE INCURVATO,
A CURA DI GIOVANNI MANCINI, LUGLIO 1998, MORCONE (BN)