Mancini, uno scultore dal forte connotato
Uno dei connotati da annoverare a Giovanni Mancini è che egli preferisce scolpire più particolarmente il legno, alla maniera forte, antica, con aggressività e vigore, da vero uomo della terra. E vai a scovarlo oggi uno che aggredisce il legno nel forte blocco, da vero scultore. Ce ne sono pochi altri: qualcuno, come Catelli, dell’area campana; qualche altro, come Codagnotto, dell’area romana; qualche altro ancora, come Bodini, dell’area milanese, dai quali grossi ceppi e robusti tronchi son trasformati in alberi di vita, uomini quasi parlanti, senza lo stampo del ripetitivo, o dei banali sensi rozzamente artigianali, come quelli alpigiani che sono tutt’uno con la bottega da falegname. Mancini no. Mancini è uno scultore anche del legno, con la rude scorza di chi sa affrontare anche il marmo, col vigore della mano e la robustezza del pensiero. Ma anche di questi se ne ricordan pochi; qualche ultimo nel tempo a noi vicino, come Canonica, classico e bello nelle fattezze umane. Mancini, dunque, per quel che attiene, è uno scultore, pieno, completo; perché quando uno scultore affronta la materia viva, oltre la creta o la cruda argilla o, in ultimo, modernamente, anche la plastilina, può e deve dirsi un artista che imprime direttamente, anche senza l’aiuto del formatore e del cesellatore, senza cioè l’ausilio dei mezzi atti a completare l’opera che è da trasformarsi in diversa altra materia; come chi lavora in cemento o in altri impasti che rendono all’istante il totale pensiero, e non hanno da attendere tempo per l’aggiustamento; e in questo ricordo, ancora nell’area nostra, Paduano, della terra, della calce e del cemento; e ancora Nardulli, che ha saputo sfruttare in una sua maniera la pietrosa massa tufacea, rugosa e frivola di consistenza.
Mancini, per dirla con parole più allargate, in completa premessa, è uno scultore che si spazia sul materiale, quello che subito dà, e ti fa notare il concluso, e quello che ti fa aspettare: il che non è la stessa cosa, senza nulla togliere ai grandi scultori che han bisogno, e per forza, anche di altra fucina per ultimare l’opera. Con lui il valore di un getto è completo, totale trasmissione di pensiero e materia. E la riveduta per il tocco finale è all’istante; e l’occhio, contento o non, non attende per apprezzare, non delega per finire. E’ un fatto certamente bello per chi crea, anche se tutti i miraggi, poi, spesso vanno ai materiali più nobili, quali il bronzo e l’argento, che da secoli, oltre il legno stesso, sono i non superati per la monumentalità dell’idea, la voluta preziosità, la celebrazione e il riconoscimento del carattere della composizione che vuole e deve parlare con tutti i pensieri che circolano e tutti i colloqui che l’artista tiene.
Mancini, dunque, è uno scultore antico e giovane, di quelli, e sono pochi, che partono proprio dalla terra; ma che arrivano al cielo; che forgiano e mettono da parte tutti i sogni e danno tutte le certezze: certezze di natura, certezze di compagine compositiva, certezze d’arte, insomma. Egli, intanto, col suo modo afferma il principio ancora immaginario di Vulcano che affrontava direttamente il metallo; ma egli era un dio, e lo scultore è uomo. Ma quale uomo, si direbbe! Michelangelo forse non era un uomo? Anche un uomo e, come altri grandi, prima e dopo di lui, nella completezza dell’immagine potente dello scultore. Ebbene, per questi sensi, Mancini ci da quest’immagine; non vogliamo esagerare che sia un titano, che di quelli ne abbiam contati pochi nel corso della storia; ma è uno scultore che sa il fatto suo, che il rudimento del primo mestiere umano lo conosce alla maniera dovuta, e quindi nell’intendere il modo di ben servire l’idea nella materia: cosa che è il primo cardine di uno scultore che rende e ti dice tutto quel che vuole. Ma, in pari tempo, egli, in questa sua dignità, finisce anche col farti apprezzare una sua scuola fatta di misura, di gesto, di presenza di vita e di conversazione continua col mondo che affabula e sostiene. Se vogliamo sapere in che cosa uno scultore può fallire quando non è totale, è proprio in questo: nella mancanza della completa affabulazione della sua scaltrezza che è mestiere ed arte. E se poi ci metti la cultura? Qui tutto va sul morbido; ché la cultura, quest’insieme indefinibile di sapere, di consuetudine, di tradizione, di trasmissione di pensieri vecchi e nuovi, di moneta annerita e moneta sonante, di fatti ancestrali e pensieri moderni, è proprio questo quid che spesso trovi in un artista e del quale non sai definire con esattezza, perché tutto è cielo, terra, mare, monti, passato, presente e futuro. E quando in un artista, in uno scultore nel nostro caso, trovi tutto questo, allora devi convincerti, ma principalmente convincere, che questa sua arte va presa sul serio, col blocco di tutti i suoi pensieri e di tutte le sue azioni, coi desideri tramutati in senso e coi sensi tramutati in vita; ché tutto è una progressione costante: e questo possiede Mancini. Le fattezze, i fattori ideali e ideologici, le concomitanze formali del sapere del segno e del ristoro dell’intera compagine sono cose che seguono, si direbbe che vengono quasi da sé, da questo fuggire dalla prigione della mente per riparare nella libertà dell’aria e della luce di ogni giorno, che è luce di quotidiana fattezza che rende chiara ed evidente le forme e i volumi.
In questa complessità di fattori che poi sono né più e né meno che l’attuazione di un ministero che si compie come per consuetudine, è la dichiarazione totale della scultura di Mancini; scultura solenne e racchiusa, conclusa e dignitosa, semplice e decretata nei suoi stravolgimenti e negli stati di grazia e di abbandono; scultura che presiede in se stessa a tutto il suo groviglio, che si contorce, che si apre, che si chiude, che si raggomitola e si espande, per poi trovare accoglimento e giudizio nelle sue finalità. Una scultura di tal genere, dunque, è una scultura di umanità, di senno, di contributo di civiltà, col continuo accumulo di esperienze, di ricordi, di natura varia e ricca, di gioia e di dolore, di tormento ed estasi. La legge della scultura non transige, se manchi di questo; giacché, se si forma un solo vuoto, allora tutto è finito, e nulla regge al grande incanto dell’opera che deve essere completa, spaziata, uniformata, scambiata con tutte le idee che in essa debbon circolare. Anche da questo punto di vista, la scultura di Mancini non fa grinze; è vera mediatrice di offerta, di richiesta e di donazione. E poiché il carattere universale che ispira sempre la vera scultura ha proprio questi connotati, la scultura di Mancini risponde in pieno a tutte le ballate dei giorni dispari e dei giorni pari della vita, nella sostanza e nell’alternanza suadente dell’esodo delle idee e dell’incameramento e ritorno dei fatti e delle azioni.
Per una scultura che voglia dare ancora un senso totale alla sua stessa vita, non v’è scampo ch’essa indugi in diversità; diversità che può essere anche morte della scultura stessa. Ebbene, la scultura, contrariamente a quanto possa credersi, rimane tale solo se è vita. E la scultura di Mancini, per mestiere, per pratica e cultura, è vita; la vita di sempre, quella che si ripete e si rigenera anche nella morte, che anch’essa è vita, quando la si prefigura nel ciclo della rigenerazione.
Maiorino M., una scultura campana, Napoli, 1984, pp. 364-365