Giovanni Mancini: quando la vita si fonde con l’arte. Un racconto dell’uomo, una vita per l’opera d’arte
In agosto, a Guardia Sanframondi, ho avuto modo di visitare una mostra d’arte che non immaginavo mi avrebbe così profondamente colpita. L’esposizione in oggetto era quella delle opere di Giovanni Mancini, artista locale e professore di prestigiose Accademie d’Arte quali L’Accademia delle belle Arti di Catanzaro, Roma, Frosinone e Napoli.
Premetto di non essere una grande conoscitrice d’arte e lungi da me, in quest’articolo, addentrarmi in argomentazioni tecniche sul suo operato. Sono sempre stata dell’opinione che ognuno deve parlare di ciò che conosce. Quello che voglio far trapelare è l’uomo dietro l’artista, l’anima di un maestro che, come spesso accade, a lungo è stato incompreso e poco apprezzato da una comunità a cui ha dedicato gran parte della sua vita.
Io in primis, ammetto di non aver mai approfondito la conoscenza dell’operato del Mancini. Quando vivevo in pianta stabile a Guardia Sanframondi ero forse in quell’età troppo poco focalizzata su tematiche profonde come l’arte. La mia assenza di più di tredici anni di certo non mi ha poi aiutata a scoprirne il valore ma, fortunatamente lo scorso agosto, incappando, quasi per caso, alla mostra allestita in suo onore, Giovanni Mancini: Una vita per l’arte, presso la Domus Mata, la galleria d’arte a cui lui e sua moglie Caterina Tarantino, hanno dato vita con tanti sacrifici ed il comune smisurato amore per l’arte, ho avuto l’opportunità di scoprire il grande valore artistico delle sue opere e la grandezza d’animo dell’uomo che si celava dietro l’artista.
C’è un episodio in particolare che ha acceso la mia curiosità e che mi ha poi portata a voler scoprire di più della sua vita e della sua arte. Ricordo che mi aggiravo tra i corridoi della Domus osservando schizzi, dipinti e sculture e continuavo a chiedermi come mai ci si affanna tanto per partecipare a blasonate mostre d’arte di ogni tipo e poi non ci si accorge di aver avuto un grande esempio d’arte per tanti anni proprio lì, a casa, e di non avere mai avuto la possibilità di coglierne la bellezza né tantomeno apprezzarne in valore. E, guardandomi intorno, scorgendo l’espressione rapita di chi come me quel giorno era entrato ad osservare l’opera di Giovanni Mancini, ho capito che forse non ero l’unica a pensarla in quel modo. È il solito banale errore che ognuno di noi commette: guardare così tanto al di là del proprio naso da non riuscire più a vedere cosa c’è sotto. La storia ahimè che si ripete: si conosce e si apprezza il profondo valore di qualcuno, solo quando ormai non è più tra noi per potergli rendere il doveroso plauso.
L’episodio di cui accennavo arrivò di lì a poco. Al termine della mia visita alla galleria chiesi al figlio dell’artista, Gianluca Mancini, di poter acquistare il volume stampato in occasione della mostra. La sua risposta mi stordì: “Il libro lo puoi avere gratuitamente. Non lo vendiamo. Papà avrebbe voluto così. Lui pensava che l’arte dovesse essere di tutti e per tutti”. Ricordo di essere rimasta interdetta e di non sapere cosa rispondere a quella osservazione. E questo è triste, infinitamente triste. Ma anche straordinariamente bello. In un mondo in cui ormai si è abituati a pagare anche l’aria che si respira, di certo non ci si aspetta di poter godere di un valore aggiunto come quello dell’arte in maniera gratuita. Non so se a sconcertarmi fu più la mia sorpresa davanti a quell’affermazione o piuttosto la consapevolezza che potessero ancora esserci persone dall’animo così nobile e profondo. Propagare e divulgare il suo operato senza pretendere nulla in cambio. Giovanni Mancini ha dedicato la sua intera vita all’arte e l’ha poi messa a disposizione di ognuno di noi. Ed è in queste piccole cose che si capisce dove si cela la grandezza. Il grande valore non è solo quello delle sue opere ma soprattutto quello dell’animo di chi le ha create.
Per giorni e giorni quelle parole continuarono a risuonarmi in testa. Affascinata ed incuriosita, volevo saperne di più. Chiesi la possibilità di un’intervista e me ne fu immediatamente accordata una con la moglie di Giovanni Mancini, Caterina Tarantino.
La sera dell’intervista Gianluca e sua madre Caterina mi accolsero in casa mettendomi subito a mio agio. Avevo con me l’agenda con sopra appuntate le mie domande e il registratore pronto a partire. Ma la signora Caterina cominciò a parlarmi di Giovanni Mancini, a raccontarmi storie di vita, di arte, del loro quotidiano, della famiglia e degli allievi. E più Caterina Parlava di Giovanni, più scorgevo nei suoi occhi la luce di chi ha amato smisuratamente ogni istante di quei pezzi di vissuto. Le parole scorrevano veloci e lei raccontava con una tale naturalezza e sincerità d’animo che rimasi rapita da ogni suo pensiero. Ero lusingata dalla sua voglia di raccontarmi Giovanni Mancini in un modo così familiare. L’intervista diventò così una piacevolissima chiacchierata, la mia agenda rimase chiusa ed il mio registratore non partì mai. Decisi che avrei ascoltato quell’accorato racconto con il rispetto e l’attenzione che meritava e che avrei affidato il mio racconto al ricordo di quella chiacchierata. Perché di certo non avrei potuto scordare nemmeno un singolo dettaglio di ciò che mi diceva.
Emozioni allo stato puro. Brividi sulla pelle e occhi a tratti lucidi. Queste le mie sensazioni. Non avevo alcun bisogno di fare domande. Tutto ciò che la signora Caterina mi stava raccontando andava ben oltre le mie banali curiosità. Lei mi stava parlando delle reali vicissitudini vissute con Giovanni Mancini, della sua vita vissuta in simbiosi con l’arte, con la materia che lavorava, con l’insegnamento e con la sua famiglia.
Giovanni viveva per l’arte
Sono queste le parole di Caterina, dette con sorriso genuino. Mi racconta di come Giovanni Mancini avesse scoperto fin da piccolo il suo lato artistico e di come la curiosità per le materie e di come trasformarle lo ha accompagnato per tutta la vita. Scoprì un grande talento per il disegno ma la scultura è sempre stata la sua grande passione. Il suo percorso di studi a stampo artistico, Liceo Artistico di Benevento e Accademia delle Belle Arti di Napoli, consolidano ulteriormente il suo talento e rinnovano la sua passione per l’arte.
Nel giro di pochi anni passa dall’altro lato del banco. Da studente d’arte ad insegnante. Nel 1977 gli viene offerta una cattedra di Tecniche della Scultura all’Accademia delle belle arti di Catanzaro. Questa avventura avrà in serbo per lui molto più che la semplice soddisfazione professionale. È qui infatti che conosce Caterina Tarantino, sua allieva e di lì a poco moglie e madre dei loro due figli. Condividono per una vita l’amore reciproco e l’amore per l’arte. “Per lui si può dire che venisse prima l’arte e poi la famiglia” mi dice Caterina con un sorriso ironico. E colgo in quell’affermazione non di certo un rimprovero bensì l’orgoglio di quella sua smisurata passione.
Si dice che dietro ad ogni grande uomo vi sia una grande donna. Ma l’idea che mi sono fatta è piuttosto che Caterina e Giovanni abbiano vissuto la loro vita camminando sempre l’uno accanto all’altro. La signora Tarantino mi ha raccontato dei sacrifici di anni passati a viaggiare in treno o in auto per raggiungere le accademie in cui insegnare. Ma la fatica era ripagata dalla gioia che Giovanni traeva nell’insegnare ai suoi allievi e nel trasmettere loro quell’amore che lo accompagnava da sempre.
Quando viaggiavamo in auto la sera, di ritorno dal lavoro, Giovanni mi chiedeva di parlargli affinché non si addormentasse. Ed io sapevo che l’unico argomento che potevo usare per avere tutta la sua attenzione fosse parlargli d’arte.
Quello che viene spontaneo chiedersi è perché sottoporsi a questi sfiancanti viaggi quando avrebbe potuto trasferirsi insieme alla famiglia più vicino al lavoro. Ma “lui Guardia non l’avrebbe mai lasciata”. Si perché Giovanni, oltre ad essere uno straordinario e talentuoso artista è stato anche un profondo conoscitore del territorio Campano in generale e Sannita in particolare. I suoi contributi di salvaguardia storico-artistica ai monumenti di Guardia Sanframondi sono innumerevoli. Ne ha studiato a fondo la storia e ne ha difeso l’integrità cercando in ogni modo di sensibilizzare la comunità verso una maggiore consapevolezza per il patrimonio che li circonda. Emblema di questo suo incessante lavoro è la Domus Mata, di cui accennavo qualche riga fa.
Caterina mi racconta che ha sempre amato quella porzione di palazzo storico collocato alle pendici del paese. “Mi ricordo che appena ho saputo che era in vendita mi sono precipitata per saperne di più. Vedevo l’espressione interrogativa di Giovanni che non capiva il perché di quel mio improvviso interesse. Quando poi gli spiegai cosa avevo in mente ne fu entusiasta. Nel giro di pochissimo tempo acquistammo lo stabile e cominciò il nostro progetto.”
Ho trovato questo aneddoto davvero significativo. Perché nonostante le origini della signora Caterina non fossero Guardiesi ha sempre compreso e rispettato l’attaccamento di Giovanni Mancini per la sua terra e personalmente ho trovato che questa sua idea rispecchi in pieno sia l’amore verso il marito che l’ammirazione per il suo lavoro. Sapeva che questo progetto avrebbe dato la possibilità a Giovanni di poter fare qualcosa di importante per la sua terra e non solo lo ha appoggiato, lo ha addirittura incentivato.
Ci sono voluti più di dieci anni. Anni fatti di lavoro e ricerca. Tutto doveva essere riportato allo splendore originario.
E così è stato. Giovanni Mancini insieme a sua moglie Caterina e suo figlio Gianluca lavorano incessantemente per anni e nel 2010 mostrano la struttura nel suo ritrovato splendore. Nell’agosto di quell’anno, che prevedeva anche i Riti Settennali in Onore dell’Assunta, aprono le porte della Domus Mata, Museo delle Arti e delle Tradizioni Attive. La Domus infatti, oltre a mostrarsi nel suo ritrovato splendore, vuole essere anche e soprattutto sede di un Centro culturale ed espositivo. In occasione dell’inaugurazione la struttura ospita un Omaggio all’arte di Giovanni De Vincenzo, maestro e amico di Giovanni Mancini e Caterina Tarantino. Nel 2013 la “CASA” dell’arte ospita invece una mostra d’arte contemporanea, “Quando la materia diventa forma/pensiero”, presentando il lavoro di 50 giovani artisti.
Il grande sogno di Giovanni Mancini era quello di creare uno spazio culturale dove fare arte, parlare d’arte e respirare arte. Aprire le porte della Domus Mata a tutti coloro che volessero arricchire la propria cultura. Uno spazio costruito con amore e dedizione messo a disposizione di chiunque potesse apprezzarne il valore e il potenziale.
Sfortunatamente Giovanni Mancini ha avuto la possibilità di veder realizzati solo due eventi nella casa dell’arte. Poco dopo l’ultimo evento la SLA lo costringerà a ritirarsi. Lascia la sua amata terra il 2 gennaio 2016.
“Per molto tempo non ho realizzato che non ci fosse più. Continuavo a sentire la sua presenza accanto a me e in qualche modo io continuavo a comunicare con lui”, mi sussurra la signora Tarantino con la voce rotta dall’emozione ed un sorriso dolce che lascia trasparire la forza e la profondità del loro legame. Mi racconta di come durante i preparativi con suo figlio Gianluca per la mostra in suo onore, continuava a percepire la sua presenza, come fosse un occhio vigile su di loro e di come questo le desse la forza e lo slancio necessari a vivere quei primi dolorosissimi mesi senza di lui.
Giovanni Mancini ha vissuto una vita piena di grandi passioni. La sua famiglia, i suoi studenti, l’arte nella sua interezza. Ha dedicato la sua vita per l’arte, dalla sua creazione alla salvaguardia, dall’insegnamento alla riflessione. L’arte era la sua vita e, osservando da spettatrice ciò che ha fatto, posso affermare che la sua vita è stata un’opera d’arte.
Con le sue opere ha affascinato, incuriosito, insegnato, emozionato. E riesce ad emozionare ancora chiunque abbia la possibilità di posare lo sguardo sul suo lavoro. Ci lascia percepire ciò che il suo animo dettava e le mani eseguivano. L’intensità di ciò che esprimeva e l’amore profondo per ciò che creava.
Ed indescrivibile dev’essere stata l’emozione che ha provato sua moglie Caterina, che durante un tour descrittivo delle opere in mostra di suo marito, si trova a raccontare e a far osservare da vicino ‘La natività’, riscoprendosi ella stessa nuova spettatrice. Quell’opera, che come tante altre, era stata oggetto di confronto artistico tra lei e suo marito, aveva custodito fino a quel momento un segreto in attesa di essere svelato. Nel descrivere le forme e la composizione di quell’opera, improvvisamente scopre si esserne il soggetto.
Più osservavo la scultura e più capivo di essere io. È stato strano. L’avevo osservata più volte insieme a lui, ma non lo avevo mai capito, né lui me ne ha mai fatto parola.
Si può solo immaginare cosa abbia potuto provare la signora Tarantino. Un ultimo messaggio per lei, un’ultima carezza. Un saluto alla sua amata attraverso il suo miglior mezzo di comunicazione: l’arte.La natività
“È adesso che sto affrontando davvero la sua assenza. Perché dopo la mostra dei suoi lavori non l’ho più sentito. Come se si fosse sentito finalmente libero di andare”. Già, forse è davvero così. Giovanni Mancini forse ha aspettato di poter incontrare ancora una volta nella sua ‘Domus’, la sua famiglia ed il popolo di una terra a cui ha dato tanto. Per poi andare via, sereno e fiducioso che il suo messaggio, forse alla fine è arrivato dritto al cuore di chi osserva il suo lavoro con rinnovato spirito.
L’idea che mi sono fatta di Giovanni Mancini è quella dunque di un uomo semplice, con un grande talento portato avanti con rara umiltà. Un uomo che ha fatto della sua vita una simbiosi con le materie che lavorava, una simbiosi con l’insegnamento e dunque con i suoi studenti, con sua moglie e con i suoi figli. La simbiosi di una vita legata a doppio filo con l’arte.
Come cita il vocabolario Treccani alla parola “Simbiosi”: “È un artista che ha realizzato una perfetta simbiosi tra arte e vita”. E nessuna descrizione poteva essere più pertinente alla vita e all’operato del Mancini.
“Se dovesse usare una sola parola per descrivere Giovanni Mancini, quale sarebbe?” mi permetto di chiedere a Caterina. Lei mi guarda con quello sguardo tenero che ormai ho imparato a conoscere durante questa indimenticabile intervista, e con il più sincero dei toni mi sussurra:
“Unico”.
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