IPOTESI DI FORMA
progettare la scultura

Tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo il termine scultura sembra aver dilatato all’estremo i confini concettuali tradizionalmente riconducibili all’originaria etimologia, finendo con estendersi a esperienze di natura altra e difficilmente ascrivibili alla processualità specifica di una operatività che, sebbene non estranea all’ibridazione linguistica, che ha attraversato e attraversa la ricerca artistica contemporanea, si è sviluppata saldamente intorno al rapporto dialettico tra forma e spazio, strutturato con modalità e misure sempre differenti.
Giovanni Mancini, nel percorso di ricerca consolidato in un arco temporale ampio, che dai primi anni ’70 del novecento ha scavalcato la soglia del secondo decennio del nuovo millennio, fin dall’inizio ha assunto come principio di progettualità scultorea l’imprescindibilità dell’azione formante, sia pure messa in atto nel rispetto della natura dei materiali utilizzati.
Azione formante che al disegno riconosce un ruolo di primaria sperimentazione, fondamentale nella definizione di una metodologia di lavoro ampia, declinata con accenti assolutamente caratterizzanti, e inteso inevitabilmente come momento centrale di una prassi creativa destinata a concretizzarsi poi in altri risultati.
All’inizio, infatti, la forma è ipotesi da verificare, è superficie che si sviluppa sulla carta, esponendosi alle pressioni delle forze che animano lo spazio, come presenze impalpabili eppure possenti, pronta a diventare volume. La grafite, il carboncino, l’inchiostro e pochi altri mezzi, attraverso cui l’artista ha l’opportunità di preservare dall’inarrestabilità del farsi il nascere di un’idea, plasmano la profondità interna fino a scoprire la struttura, per svelare la componente di visualizzazione plastica, i cui valori sono concettualmente impressi nel processo scultoreo-costruttivo. La morfologia invece si chiarisce problematicamente nelle inevitabili tangenze con l’espressività pittorica, che non contraddice, anzi rafforza le originarie asserzioni.
La studiata contrapposizione dialettica tra la superficie e i segni su di essa tracciati, seguendo la necessità di modellare lo sviluppo dei volumi, di controllare l’intensità della luce e delle ombre e regolare le modulazioni delle densità e delle distanze, configura lo spazio fino a renderlo inequivocabilmente evidente, sia come struttura che come forma. Disegnando, infatti, lo scultore agisce sulla carta come poi opererà con gli strumenti adatti sulla materia scultorea: nascono così spessori, profondità, quadri, sottosquadri e tuttotondo, rilievi schiacciati o aggettanti, autonomi o concatenati ad altri, che infrangono il piano e si impongono plasticamente.
Queste premesse hanno il fine di collocare la lettura interpretativa dei disegni di Mancini, in una prospettiva duplice ma non ambigua, caratterizzata inevitabilmente da una funzione di progettualità plastico-tridimensionale e da un approccio analitico-lineare, capaci di offrire insieme la possibilità di comprendere il senso di una sperimentazione che non ha conosciuto soste. Una duplicità che assume peso differente lì dove la componente progettuale e costruttiva qua¬lifica e rafforza i valori estetici dell’impianto scultoreo, per affermare un motivo formale ben diverso da un’espressività fine a se stessa.
Non si tratta perciò di schizzi, anche se il lavoro dello scultore comincia proprio con quei segni che la carta raccoglie e accoglie, semmai di una progressiva messa a fuoco dell’estensione dello spazio e del ritmico comporsi dei pieni e dei vuoti, del distendersi di profondità tangibili o solo accennate, dello scivolare, dell’indugiare della luce radente o incidente su superfici levigate e abrase. Mancini, infatti, non cerca di adattare la forma alla molteplicità dei punti di vista che la plasticità scultorea offre, piuttosto accresce le incidenze luminose con accenti cromatici, scardina i piani con leggerissimi scarti, creando minimi dislivelli, in cui suggerire fenditure profonde, morbidi rilievi o tenui incisioni. Nella qualità del segno è insita un’autonomia di senso, ma al contempo è racchiusa l’operazione che andrà ad attuare sulla materia plastica: i tagli vivi, le increspature, le ondulazioni, le escoriazioni, le politezze.
Un lavoro sistematico, quindi, che lega strettamente l’estetica all’esperienza del costruire la tridimensionalità, attraverso l’evidenza di un’imprescindibile attitudine progettuale. Un disegnare che inevitabilmente materializza sulla carta la complessità delle procedure operative, conducendo ben oltre il suo valore preparatorio, a lasciare affiorare l’esigenza forte di avvicinamento alla comprensione della scultura.
Attraverso l’individuazione di specifici processi espressivi, il disegno è, infatti, rivelatore della natura del linguaggio scultoreo che Giovanni Mancini ha saputo elaborare, metabolizzando una molteplicità di stimoli che l’esperienza della quotidianità porge all’arte.

Loredana Rea